Madonna de Piternis

Cervaro

Madonna de Piternis
col Santuario omonimo, inizia la sua storia con notizie leggendarie che risalgono alla fine del XIV secolo

Nella rigogliosa zona ai piedi di Monte Aquilone, ricca di ulivi e di pascoli verdi, una pastorella, deforme nel corpo, ma pura e pia nel cuore, era solita menare al pascolo il suo piccolo gregge. Un mattino di gennaio, la fanciulla sedeva presso un ulivo: nelle sue mani il Rosario, sulle labbra le dolci parole rivolte alla Mamma Celeste, nelle orecchie il carezzevole murmure di una sorgente lì dappresso, negli occhi i raggi del sole, la cui luce improvvisamente fu sopraffatta da una visione di Paradiso, con l’immagine viva della Madonna. La Vergine Maria apparve in tutto lo splendore del suo celeste trionfo, attorniata da un coro di Angeli, in un tripudio di luce. La Celeste Signora parlò alla pastorella, così come parlerà cinque secoli dopo a Bernadette Saubirous di Lourdes e, nel 1917, ai contadinelli di Fatima. E disse alla fanciulla di Cervaro di richiedere ai Cervaresi di erigere, nel luogo dell’apparizione, un tempio a Lei dedicato, per tutte le grazie mariane riservate ai fedeli, contro i flagelli della peste, della fame, della guerra e dei terremoti. I cittadini non diedero ascolto alla fanciulla, anche perché, se fosse stata veritiera, la prima grazia sarebbe toccata proprio a lei, povera inferma e storpia. La fanciulla tornò a riferire l’insuccesso alla Celeste Signora, la quale volle dare un segno tangibile della Sua presenza con un miracolo: la pastorella tornò in paese perfettamente guarita nel corpo, recando un ramo di biancospino fiorito, nonostante la gelida stagione. Allora tutta Cervaro gridò al miracolo e accorse in processione sul luogo delle apparizioni. Qui si cominciò subito a costruire un santuario, che si chiamò della “Madonna dei Piperni”, poiché in quel luogo era una cava di “piperni”, cioè di pietre di Piperno, o piperino. Madonna dei Piperni, diventò, nel linguaggio comune, Madonna De Pipernis, e quindi De Piternis, anche perché De Piternis assuona con il più sacerdotale e sacrale Sempiternis che proviene dalla liturgia cattolica.

Il Santuario dovette essere di modeste dimensioni all’origine, poco più che una cona con l’immagine di Nostra Signora De Piternis che tiene il Bambino benedicente. Il quadro prodigiosamente non poteva essere ritoccato nel suo disegno primitivo e, ogni volta che si è tentato di farlo, sarebbero accaduti fenomeni soprannaturali terrificanti. L’immagine del quadro si trova oggi all’ingresso della Chiesa di Nostra Signora De Piternis. Tutto il Santuario ha subito continue trasformazioni architettoniche e pittoriche che, al di là del racconto leggendario, presentano stretti riferimenti con la storia dell’arte, la storia culturale e quella civile.

Nei pressi del Santuario sorgeva uno zampillo d’acqua, anch’esso dalla tradizione leggendaria. L’acqua di quel rivolo era miracolosa, perché aveva il potere taumaturgico di guarire i fedeli da ogni malattia, allo stesso modo che l’acqua di Lourdes. Senonché quell’acqua scomparve, al tempo dell’occupazione dei Francesi di Gioacchino Murat. Tutto accadde un giorno in cui l’amica di un ufficiale napoleonico, miscredente come miscredenti erano tutte le soldataglie francesi reduci ed eredi della Rivoluzione Francese, con dissacrante atteggiamento, immerse nell’acqua il suo cagnolino affetto da scabbia, perché guarisse. Per triste miracolo, l’acqua si ritrasse, fino a scomparire per sempre. Il fatto sconvolse prima di tutti la giovane, che, atterrita dal prodigio, invano chiese alla Vergine che l’acqua tornasse a scorrere benefica. Oggi, nell’attuale chiesa De Piternis, giace una tavola a forma circolare, a ricordo dell’esistenza e del posto in cui sgorgava l’acqua miracolosa, che tuttavia è rimasta viva e zampillante di fede nella leggendaria tradizione popolare di Cervaro.

Altrettanto leggendari sono gli avvenimenti connessi con la prima diffusione del Cristianesimo, nel territorio, che si sarebbero manifestati già nel IV secolo, o addirittura prima dell’Editto di Costantino, emanato a Milano nel 313, che dava ai cristiani libertà di culto e restituiva loro i beni confiscati. Risulta che al Sinodo romano del 480 partecipò il vescovo di Cassino Severo, poi elevato agli onori degli altari. E prima di Severo fu vescovo di Cassino Caprario, quando il Cristianesimo era ancora compresente con il Paganesimo. Sono noti, infatti, i diffusi riti pagani, per gli “dei falsi e bugiardi”, che suscitarono l’ira di San Benedetto, quando giunse a Montecassino. Dopo che Benedetto abbatté il tempio e l’ara di Apollo, edificandovi la chiesa di San Martino e l’oratorio di San Giovanni Battista, dove sarebbe sorta la grande Abbazia, a mano a mano che la nuova fede conquistava il Cassinate, altre chiese, altri monasteri incominciavano a nascere tutt’ intorno, compreso il territorio di Cervaro. Ricordiamo, tra l’altro, l’opera del longobardo re-frate benedettino Rachis, di cui abbiamo già parlato.

Da sottolineare, sin dalle origini, l’indole dei terrazzani di Cervaro estremamente ed orgogliosamente fermi nella difesa dei propri diritti, soprattutto quelli della libertà e dell’indipendenza.

Ci riferiamo, in modo specifico, all’indipendenza ed all’autonomia che Cervaro, nel corso della sua storia, ha molto spesso rivendicato nei confronti del potere politico e amministrativo dell’Abbazia di Montecassino.

La Signoria benedettina ha dominato la Terra Sancti Benedicti in modo pressoché incontrastato per quasi un millennio e mezzo, dal suo nascere fino, possiamo dire, alla venuta nel Meridione dei francesi di Giuseppe Napoleone e di Gioacchino Murat.

Cervaro e Trocchio, con i loro rispettivi castelli, facevano parte di quei gangli importantissimi ed eminenti nella linea di difesa della potente Signoria benedettina: uno sbarramento di castelli tutt’intorno e dentro la Terra Sancti Benedicti. Tali fortificazioni di difesa furono erette specialmente con l’editto dell’abate Richerio, nei primi decenni dell’anno Mille. E fu in questo periodo che nacquero, nelle nostre zone, i primi comuni, tra cui quelli di Cervaro e di Trocchio, allorquando, intorno alle numerose fortificazioni sorte dovunque ci fossero un’altura, una difesa naturale, una preesistente chiesa o un convento, si raggrupparono gli abitanti sparsi nelle campagne e costruirono le loro abitazioni, vicine le una alle altre, cingendole di mura e sorvegliandole con torri. Il comune non ebbe solo funzione di difesa e di più confortevole abitazione, ma costituì più agevole opportunità per la formazione di una coscienza civica, di una identità comune e “campanilistica”, di una consapevolezza di dignità “cittadina”. Fu proprio questa consapevolezza che, come dicevamo, pose Cervaro, il Castrum Cerbarii, in reiterata opposizione contro Montecassino. E bisogna pur aggiungere che Cervaro non si lasciò mai sfuggire occasione propizia per manifestare il suo dissenso, per tentare di scrollare il giogo badiale, specialmente quando le richieste dell’erario si facevano più pesanti.

Una prima rivolta di Cervaro contro l’Abbazia avvenne nel 1038. Pandolfo Il, duca di Capua, in quell’anno marciò contro Montecassino, per contrastare i potenti conti di Aquino. Le milizie dell’Abate non riuscirono a domare la rivolta dei Cervaresi, per cui si richiese l’intervento dell’esercito di Atenolfo d’Aquino. I rivoltosi furono sconfitti, furono ricondotti sotto il dominio di Montecassino, ma non si spense l’aspirazione ad una maggiore libertà. Oltretutto tale aspirazione era motivata dal fatto che le cariche civili e amministrative, come i giudici, i boni vires, gli esattori, i sindaci, ancora venivano conferite dall’Abate, mentre ormai da tempo le suddette cariche, altrove, fuori dalla Terra di San Benedetto, erano elettive.

Una seconda insurrezione va registrata, da parte di Cervaro e Trocchio, insieme agli altri castelli della Terra Sancti Benedicti nei primi decenni del XII secolo. Al tempo delle lotte tra i Normanni di Ruggero I! e i papi Onorio Il e Innocenzo Il, Montecassino era a favore del Papa, per cui subì la reazione dei Normanni, i quali martoriavano con occupazioni e scorribande il territorio di San Germano e incendiarono San Pietro a Monasterio, indebolendo fortemente la potenza militare dell’Abbazia. La rivolta fu guidata da Guarino, cavaliere del re, sicché tutti i castelli della Terra di San Benedetto, primo fra tutti il castello di Sant’Angelo in Theodice, insorsero contro l’Abate, arrivando quasi ad espugnare l’Abbazia. Si era nel 1137.

Durissima fu la rivolta di Cervaro contro Montecassino al tempo di Francesco Blanco da Piedimonte, il quale, per conto di papa Martino, aveva occupato Piedimonte, Villa Santa Lucia e lo stesso Montecassino. La rivolta fu capeggiata da Anton Mozzone, insieme ad Amico Rello, Pietro Manarabete, Antonio Trotta. I rivoltosi furono fermati a San Germano e fecero ritorno a Cervaro, ove si abbandonarono ad atti di vandalismo e recriminazioni contro gli inermi concittadini. Indi occuparono Sant’Elia, Vallerotonda e Viticuso. Infine la ribellione fu domata e i capi Mozzone, Rello, Manarabete, Trotta pagarono con la forca il loro gesto.

La lotta tra Angioini e Aragonesi fu altra occasione perché Cervaro manifestasse il suo dissenso e la sua opposizione contro Montecassino. Il conte di Trivento, che combatteva per gli Angioini, invase il territorio di San Germano, occupando i castelli più importanti lungo il suo itinerario, come Cervaro, Trocchio e San Vittore, i quali non opposero se non una parvenza di resistenza, cedendo volentieri alla resa. L’esempio fu seguito dagli altri castelli benedettini, come Sant’Elia, Sant’Angelo, Viticuso, Vallerotonda, Acquafondata, passando, come Cervaro, agli Angioini. La resa a questi ultimi, a danno dei Normanni e di Montecassino, loro alleato insieme al Papa, fu l’ennesima manifestazione della ribellione di Cervaro contro il potere politico e amministrativo del Monastero di Montecassino. Con l’arrivo dell’esercito pontificio, al comando di Napoléone Orsini, la Terra di San Benedetto fu ricondotta sotto l’imperio degli Aragonesi, i quali, peraltro, recarono un periodo di pace e proficua laboriosità, nel Mezzogiorno e anche nella Terra Sancti Benedicti.

Nella prima metà del Settecento, a Napoli si insediarono i Borboni, a seguito del Trattato di Vienna del 1738, che pose fine alla Guerra di Successione Polacca. Nell’intricata fase di preparazione del passaggio dal Vicereame d’Austria alla Casa Borbonica, però, si ebbe un periodo di disordine, di incertezze e di scaramucce, di cui, come accadeva di solito, le popolazioni soggette all’Abbazia di Montecassino approfittarono per cercare di scrollarsi di dosso il fardello politico, amministrativo, ma soprattutto erariale dell’Abazia stessa. In questo clima di ribellione, nel 1734, Villa Santa Lucia, Piedimonte e poi Cervaro rifiutarono di continuare a pagare rendite e dazi che costituivano antichi privilegi di Montecassino. E Cervaro andò anche oltre, inviando il proprio sindaco, Flavio Castaldo, a capo di una delegazione, alla Corte d’Austria, a Vienna, con pressante richiesta affinché l’autorità imperiale ingiungesse all’Abbazia di Montecassino di abolire ogni peso erariale, tributo, rendita, o quanto altro costituiva medievale retaggio a carico del Comune cervarese. La richiesta all’autorità imperiale di Vienna divenne inutile, perché il potere politico sul Reame di Napoli passò ai Borbone. Fu proprio un Borbone, Carlo III, che nel 1741, si propose di porre fine ai privilegi feudali ecclesiastici. Perciò Cervaro, poiché Montecassino continuava ad incamerare decime, adì le vie legali contro l’Abbazia, invocando l’illegittimità ditali esazioni. Le rivendicazioni di Cervaro, evidentemente, non furono ottenute in modo soddisfacente, se bisognò aspettare la fine del secolo, tra il 1798 e il 1799, con l’occupazione francese dello Championet e con la Repubblica Partenopea, perché si verificassero le eversioni delle feudalità e le soppressioni dei privilegi ecclesiastici. Nelle nostre piazze cittadine ed anche a Cervaro, furono issati i vessilli rivoluzionari, gli “alberi della libertà’, e i cittadini, magari ignari e illusi, si sentirono “democratici”, finalmente liberi e indipendenti dall’autorità abbaziale di Montecassino. I beni, di San Benedetto, mobili e immobili, furono sottratti al Monastero e assegnati al Comune.

Le attese di rivendicazione di Cervaro, nei confronti della Signoria Benedettina, in qualche modo trovarono alimento e soddisfazione con la ventata rivoluzionaria francese, sì, ma il prezzo fu molto caro, pagato in vandalismi, depredazioni e saccheggi. Né, d’altronde, i governanti borbonici erano stati meno esosi. Tutt’altro! Ferdinando, dalla Sicilia, e i suoi sostenitori, dal Napoletano, lavoravano per far apparire i Francesi come usurpatori e illegittimi, rapaci invasori. La resistenza reazionaria borbonica prendeva sempre più consistenza, fino a sfociare in quel singolare fenomeno del banditismo dei “Capimassa”. Per molti versi leggendarie furono le imprese di Fra Diavolo, Mammone, Pronio, Sciabolone, Moliterno.

Anche Cervaro scrisse la sua pagina epica nell’opposizione guerresca contro i Francesi, guidati dal temerario comandante Don Diego Garofalo. L’azione ebbe esito positivo, ma ancora una volta a caro prezzo, perché i Francesi, inseguiti dalle forze armate borboniche del Cardinale Ruffo, nella ritirata depredarono e incendiarono, peggio dei Saraceni, tutto ciò che capitò loro a tiro, da San Germano a Cervaro, a Trocchio, e così di seguito.

Un ulteriore atto di storico rilievo Cervaro lo compì nel 1820, a sostegno della Rivoluzione Carbonara Napoletana accesa da Morelli, Silvati, Menichini. Si trattava di diffondere più capillarmente l’idea rivoluzionaria, organizzare il moto, arruolare soldati, raccogliere fondi per le inevitabili e indispensabili spese, nel Reame e in Terra di Lavoro. Il maresciallo di campo Minutolo venne a Cervaro per organizzare il corpo delle Milizie provinciali. Dal canto suo il sindaco di Cervaro, Luigi Renzi, erogò 1080 ducati per l’equipaggia mento delle truppe rivoluzionarie. Cervaro e Trocchio, insieme ai comuni del circondano intorno a San Germano, si proclamarono fedeli alla Costituzione e offrirono la loro opera per la difesa dello Stato. Tra le fortificazioni per tale sostegno viene menzionata la ‘Taverna Cataldi”, opportunamente attrezzata. Peccato che tutto sembrò vanificarsi a causa della fuga per diserzione delle truppe poco motivate e ancora poco sensibili alla rivoluzione costituzionale e patriottica. I moti e la partecipazione, pur falliti negli esiti immediati, non furono però inutili per i loro obiettivi finali, come insegnerà Giuseppe Mazzini.

Abbiamo seguito la rievocazione di alcuni fatti, tra leggenda e storia, con l’intento di individuare comportamenti e situazioni tali da conferire una fisionomia, una personalizzazione, una identità a Cervaro e ai Cervaresi. La storia dei nostri comuni, per lo più, si stempera e si perde nell’anonimato, inserendosi in una storia più grande, quella dei grandi avvenimenti, delle grandi strutture politiche e sociali. Tale era, generalmente, il rapporto tra le storie particolari dei vari castelli e comuni della Terra di San Benedetto e la più grande storia della Signoria di Montecassino. Cervaro ha saputo dare alla sua vita una impronta di autonomia, di caratterizzazione propria, sì da distinguersi nell’affermazione della sua identità.

E possiamo andare anche oltre, in questa analisi, ritrovando altri momenti importanti di individualizzazione non solo corale ma anche di singole personalità, di eroismi, fino al martirio del giovane carabiniere Vittorio Marandola.

Se è vero che la Rivoluzione Carbonara fallì, è anche vero che, poco oltre nel tempo, in Pieno Risorgimento, quando gli ideali politici erano più maturi, troviamo a Cervaro ferventi Garibaldini a combattere per l’Unità d’Italia, tra cui spicca Antonio Bianco, uno dei “Mille” diretti a Marsala. Tra le altre azioni militari degne di elogio garibaldino, Antonio Bianco va menzionato per aver partecipato, con altri eroi, alla difesa del generale Giuseppe Garibaldi, caduto in una micidiale imboscata, nei pressi del Volturno. Il Bianco, colpito dal nemico, tornò a curarsi le ferite presso la sua famiglia, a Cervaro, per ripartire, non appena guarito, a dare eroicamente e generosamente la vita, nella guerra per l’Unità d’Italia, presso Santa Maria Capua Vetere.