Arpino Volsca
Le vicende storiche – Arpino volsca
I più antichi rinvenimenti riguardanti il territorio di Arpino sono di natura paleontologica e si riferiscono a cave di ghiaia situate vicino alla stazione, dove nel 1890 furono individuati resti di elephas e di hippopotainus maior ed alcuni denti molari di bos primigenius. Tale scoperta va inquadrata in una serie di simili rinvenimenti registrati nella Media Valle del Liri e che ovviamente suggeriscono elementi locali di condizioni climatiche ben diversi da quelli attuali.
A strumenti “neolitici” trovati ad Arpino accennò vagamente G.B. Nicolucci, come anche poco approfondita appare la citazione di G. Pierleoni (1907) relativa a tombe di “incineratori”, venute alla luce lungo la strada che raggiunge la stazione.
Relativamente più consistenti sono le testimonianze, sia storiche che archeologiche, del periodo volsco. Ad una leggendaria fase monarchica si riferiscono diversi autori (Plutarco, Svetonio, Silio Italico, ecc.), ma le prime notizie dirette su Arpino risalgono a Livio. Dopo il trattato di spartizione del 354 a.C., fra i Romani e Sanniti, che stabiliva le rispettive zone di influenza (riva destra e riva sinistra del Liri), iniziò la graduale occupazione di ciò che ormai restava del territorio volsco. Arpino venne così occupata dai Sanniti, la cui presenza non durò tuttavia a lungo, perché nel 305 a.C. essa passava definitivamente sotto il dominio romano.
Da un punto di vista archeologico non vi era nulla sino a pochi anni or sono che con sicurezza fosse attribuibile ai Volsci.
Le mura in opera poligonale non sono rientrate nel passato in specifici programmi di scavo ed appare singolare, ma lodevole, il tentativo operato a suo tempo, in questa direzione, dall’illustre antropologo Giustiniano Nicolucci.
“Nel settembre del 1875 Nicolucci riesce a portare Schliemann e la sua fama a Isola del Liri. Sembra chiaro che egli vedesse in lui esattamente lo scavatore per eccellenza, il trovatesori dal tocco di Mida di cui parlava il mondo intero. La nota inviatagli da Schliemann appena dopo la visita (dall’Hotel Ginevra di Napoli, 22 settembre) permette di scorgere che Nicolucci aveva tentato di catturare Schliemann per uno scavo “alla troiana” dentro “le mura ciclopiche di Arpino”. Nicolucci doveva avere a lungo pensato che quel le mura magalitiche nascondessero qualcosa e meritassero attenzione. Il suo illustre ospite ammette che le mura viste “sono antichissime”, ma non sembra impressionato e seriamente interessato e ha l’aria di voler prendere tempo. Non se ne farà nulla. La busta, conservata, porta l’indirizzo di Nicolucci a Roccasecca Fedele, 1985).
Rimaneva, quindi, aperta la questione della datazione delle mura di Arpino. Non si potevano naturalmente prendere in considerazione le sorpassate ed assurde cronologie riferite ai Pelasgi, essendo ìl problema unicamente quello di distinguere le costruzioni romane da quelle eventualmente volsche. Sull’altura della Civita Falconara (m. 490 s.l.m.) era stato evidenziato un circuito murario autonomo, che poteva far pensare che proprio lì vi fosse l’originario nucleo abitato di Arpino, ma proprio in quel settore le mura risultavano costruite con la più tarda “quarta maniera” e comunque con blocchi di calcare ben squadrati.
“D’altra parte, una radicata tradizione voleva che l’insediamento più antico di Arpino fosse sulla Civita Vetere (alt. m. 610 s.l.m.), se non altro per il toponimo, documentato sin dal 1076. Anche sulla Civita Vecchia e sul vicino Colle si riscontrano essenzialmente la seconda e la terza maniera (sistemi costruttivi più evoluti), mentre brevissimi tratti in prima maniera (la più rozza) si riferiscono a punti in cui gli alti dirupi fornivano una naturale fortificazione. Questo senza contare molteplici osservazioni tecniche ed i confronti, per cui è stata ormai comunemente accettata la tesi che le mura di Arpino siano state costruite dai Romani durante le guerre sannitiche.
Negativi sono stati anche i risultati delle ricerche in superficie, svolte nel passato specialmente nella zona della Civita Vecchia, e ricordiamo, fra le altre, quelle condotte nel 1972 dal Gruppo Archeologico Latino. Perciò soltanto alcuni isolati frammenti ceramici, trovati casualmente, rappresentavano il lontano passato di Arpino: un frammento di ansa a maniglia e alcuni frammenti di vasi, peraltro non catalogabili, venuti alla luce nei terreni sottostanti Via delle Volte”(M. Rizzello, 1990).
A questo punto, mi resi conto che era necessario intensificare le ricerche in superficie. Ancora una volta, battei inutilmente il colle della Civita Vecchia, dove individuai solo frammenti fittili romani e medievali, ma ero intimamente convinto che solo la Civita Falconara potesse ancora riserbare delle sorprese ed è stato proprio sul ripido versante settentrionale di questo colle, certamente di difficile perlustrazione, che trovai i primi pezzi arcaici catalogabili.
Raccolsi, in diverse ricognizioni, circa centoventi frammenti, di cui oltre quaranta catalogabili. Le forme ceramiche si riferivano a doli, grossi contenitori, piattelli, catini, forme chiuse, ciotole e forse vasi carenati, ma soprattutto si evidenziava la presenza di olle e scodelle, secondo tipologie già rilevate in altri insediamenti volsci della media Valle del Liri (Vicalvi, Isola del Liri, Sora, ecc.).
Si trattava di una ceramica di abitato di uso domestico, databile dalla fine dell’Vili sec. a.C. sino al IV sec. a.C. e collegabile ad una forma di vita economica basata sulla pastorizia e sull’agricoltura (con la presenza, fra l’altro, di frammenti di macine), riferibile ad una società piuttosto chiusa, con contatti esterni molto scarsi, al contrario di quanto rilevabile a Vicalvi e ad Isola del Liri. Sono particolarmente interessanti alcuni elementi costruttivi (intonaco di capanna, mattonel le di pavimentazione, ecc.).
Questo rinvenimento rappresenta una vera e propria svolta negli studi e rilancia naturalmente la tesi che l’Arpino volsca (preceduta da una prima fase probabilmente “opica”) fosse essenzialmente costituita dalla Civita Falconara, con un insediamento di cocuzzolo analogo a quelli di Vicalvi, di Rocca d’Arce e forse di Atina.
Il Sommella sembra ritenere che il centro volsco dovesse avere, come difesa, apprestamenti lignei, ma allora per quale motivo i Romani avrebbero dovuto costruirvi un circuito murario autonomo? Non certamente a protezione esclusiva della popolazione volsca, che sino a poco tempo prima era stata nemica di Roma, e neppure per motivi strategici, perché in questo caso un circuito autonomo sarebbe stato creato sul colle di Civita Vecchia, vera e propria arx del complesso difensivo.
In realtà, vi sono diversi motivi, che qui non è possibile approfondire, per ritenere che Civita Falconara avesse un circuito autonomo di mura in opera poligonale. In relazione a tale circuito, ricordo due iscrizioni romane (C.I.L., X, 5680, 5683), un tempo inserite nella chiesa di Santa Maria sulla Civita Falconara, che sono da riferirsi alla costruzione e restauro di mura e torri; in particolare, nella seconda epigrafe si cita la costruzione di un muro lungo ben 112 metri. Le iscrizioni documenterebbero quindi un massiccio rifacimento, avvenuto nel I sec. a.C., delle più antiche mura volsche della Civita Falconara.